Testo di Annibale Salsa tratto da “Le Alpi: dalla riconquista alla conquista” edizioni il Mulino – recensito su questo sito
In questo articolo vengono analizzati i presupposti storici che portarono nel 1863 alla nascita del Club Alpino Italiano. Non sfuggirà al lettore il connubio forte tra scienza e montagna già introdotto da Mantovani nell’articolo precedente, che qui Salsa inserisce nel contesto post-risorgimentale per darci un quadro molto preciso di quello che diventerà il DNA del Club Alpino Italiano, formato da una componente scientifica e da una componente sportiva che negli anni acquisterà maggior rilievo.
7 Dicembre 1856: Quintino Sella viene cooptato dall’Accademia delle Scienze di Torino quale membro effettivo.. 23 Ottobre 1863: Quintino Sella fonda il Club alpino di Torino, futuro Club alpino italiano, all’interno della Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, simbolo evidente dell’impronta scientifico-culturale-formativa del futuro Sodalizio.
I legami fra scienza ed alpinismo, in Italia, avranno nello scienziato ed alpinista Sella un autorevole punto di riferimento.
La fondazione del Club Alpino Italiano si colloca, infatti, nel periodo storico immediatamente successivo alla nascita dello Stato unitario italiano (17 Marzo 1861) ed è contestuale, quindi, alla sua evoluzione istituzionale e sociale. Essa riflette il vivace clima risorgimentale e post-risorgimentale che ha innervato la vita culturale e politica del milieu scientifico torinese. La città di Torino, a seguito dell’Editto di Rivoli dell’anno 1561, diventerà il centro politico-amministrativo degli Stati Sabaudi. La città subalpina subentrerà alla transalpina Chambéry dapprima nell’ambito del Ducato di Savoia fino all’anno 1720 e, successivamente, del Regno di Sardegna fino al 1860 e del regno d’Italia dal 1861 al 1864. Torino rafforzerà, pertanto, la sua vocazione di centro gravitazionale delle Alpi Occidentali, ovvero di quel settore dell’arco alpino che segnerà la nascita dell’alpinismo nella sua originaria connotazione scientifico-esplorativa. Questo approccio alla montagna, di matrice cittadina ed intellettuale, veniva a configurarsi come una modalità di frequentazione maturata nel clima culturale ginevrino, allora fortemente influenzato dall’autorevolezza scientifica di Horace-Bénédict De Saussure, eminente filosofo della natura. Sul piano pratico sarà la salita al Monte Bianco, compiuta nell’estate del 1786 grazie alla determinazione del medico Michel-Gabriel Paccard e sotto la guida del montanaro di Chamonix Jacques Balmat, ad imprimere una svolta nell’«invenzione», tutta moderna, della conquista delle vette. La matrice scientifica dell’alpinismo, alimentata dalle innovative idee del pensiero filosofico illuminista, individuava nella salita delle montagne la concretizzazione di un ideale di conoscenza declinato in senso rigorosamente laico. Ciò significava rapportarsi agli spazi vergini delle montagne con uno stato d’animo totalmente liberato da quei tabù magici e religiosi che, in epoca premoderna, avevano pesantemente ipotecato l’ascesa alle cime. Le vette erano ritenute, infatti, spazi del sacro inteso nella sua costitutiva ambivalenza, divina o demoniaca, non violabile attraverso la presenza umana ritenuta profanatrice. Oltre alla paura del mistero che le cime custodivano, i valligiani erano del tutto privi di interesse materiale per i terreni improduttivi posti sopra il limite delle praterie sommitali non potendo, queste ultime, essere utilizzate per le finalità economiche agro-pastorali, le uniche perseguibili in un’economia di autoconsumo e di sussistenza.
L’Università subalpina e l’Accademia delle Scienze erano le istituzioni di ricerca cui facevano riferimento i primi salitori delle montagne piemontesi. Alla sovranità sabaudo-piemontese apparteneva ancora, per intero, la più alta montagna d’Europa fino al 1860, anno in cui venne formalizzata la cessione della Savoia alla Francia in applicazione degli accordi di Plombières fra Cavour e Napoleone III. Il clima di euforia per la conquista delle vette aveva eccitato gli animi, in particolare degli Inglesi, i quali riservarono al Monte Bianco ed alle vicine Alpi svizzere un’attenzione del tutto particolare. Indubbiamente, agli interessi scientifici originari si affiancarono interessi turistici e ricreativi nei confronti della montagna. Tuttavia, le motivazioni profonde dell’«andar-per-monti» continuarono ad essere quelle legate allo studio delle Scienze della Terra, con particolare riferimento alla geologia ed alla geomorfologia. Frattanto, nell’anno 1857, a Londra veniva fondato il primo Club Alpino del mondo, associazione che annoverava, fra i suoi selezionati membri, illustri scienziati come John Tyndall. Accanto all’originario nucleo degli scienziati cominciava però a farsi strada una scuola di pensiero orientata agli aspetti sportivi dell’alpinismo. Essa aveva nella figura di Lesley Stephen, padre di Virginia Wolf, un carismatico punto di riferimento. All’interno di quest’ultima componente, l’alta montagna si trasformava da “terreno di ricerca” in “terreno di gioco” dell’Europa (Playground of Europe), lasciando uno strascico di contestazioni e prese di posizione da parte della componente scientifica originaria. Negli anni 1862 e 1863 la febbre della conquista alpinistica si diffonderà fra i ceti colti ed agiati dell’aristocrazia e della borghesia austriaca (1862), svizzera ed italiana (1863). La motivazione scientifica sarà ancora predominante per giustificare il bisogno di salire i monti sviluppando ricerche in ambito mineralogico, pedologico, oltre che fisico-chimico e botanico. Le prime esplorazioni alpinistiche al Monviso vedranno all’opera gli Inglesi, come accaduto in larga parte delle Alpi, suscitando una certa voglia di rivalsa nel patriota Sella il quale coglieva, nella raggiunta unificazione nazionale, l’elemento catalizzatore per far maturare la volontà di fondare, anche nella nuova Italia, un’associazione di alpinisti sul modello del Club londinese.
L’associazione – libera, laica ed aconfessionale – avrà come scopo quello di: «far conoscere le montagne, in ispecie italiane, e di agevolarvi le escursioni, le salite e le esplorazioni scientifiche» (art. 2 dello Statuto del Club Alpino di Torino, dal 1867 diventato Club Alpino Italiano). Nel discorso di inaugurazione al settimo congresso degli alpinisti italiani tenutosi a Torino nell’anno 1874 leggiamo: «Vi ha nelle Alpi tanta profusione di stupendi e grandiosi spettacoli, che anche i meno sensibili ne sono profondamente impressionati. Il forte sentire ben presto agisce sull’intelletto, sorge la curiosità, il desiderio di sapere le cose e le cause delle cose e dei fenomeni che si vedono. Non si cercherà la ragione di ciò che si vede ogni giorno; l’abitudine crea l’indifferenza; ma gli spettacoli, i fenomeni straordinari, cioè quelli che ordinariamente non si vedono, destano la curiosità e l’intelligenza umana, e così le montagne producono l’effetto dei lunghi viaggi. Quante nozioni, quanti propositi, anzi bisogni di studiare, di indagare, non si riportano dalle escursioni alpine. Quanti pensieri novelli si affollano alle vostre menti comunque siate naturalisti, artisti, filosofi, letterati» (1). Le motivazioni scientifiche, da un lato, e quelle proprie della tradizione risorgimentale, dall’altro, costituiranno le “ragioni seminali” della decisione maturata da Quintino Sella, professore di mineralogia alla Scuola per Ingegneri (oggi Politecnico) di Torino e Ministro delle Finanze del Regno, di costituire una Libera Associazione di frequentatori delle montagne.
Nella celebre «Lettera» indirizzata a Bartolomeo Gastaldi il 15 Agosto 1863, Quintino Sella annota: «A Londra si è fatto un Club Alpino, cioè di persone che spendono qualche settimana dell’anno nel salire le Alpi, le nostre Alpi! […]. Anche a Vienna si è fatto un Alpenverein. […] Ora non si potrebbe fare alcunché anche da noi? Io crederei di sì» (2). Accanto al Sella, si ritroveranno a condividere gli scopi associativi altre figure eminenti del sapere scientifico torinese: il geologo Bartolomeo Gastaldi, segretario della Scuola di Applicazione per Ingegneri ed il botanico Paolo Ballada di Saint Robert, tutti membri dell’Accademia delle Scienze subalpina. Le motivazioni di ricerca erano fatte salve e la centralità assegnata alle scienze geografiche, geologiche e geomorfologiche accompagnerà costantemente la storia del Sodalizio fino alla costituzione di un comitato scientifico, nel secolo successivo, ad opera di un altro scienziato della terra: Ardito Desio. Geografi e geologi hanno lasciato, nei centocinquanta anni di vita del CAI, tracce indelebili della loro presenza scientifica a supporto e stimolo per gli alpinisti, quasi a definire il concetto di alpinismo, espresso da un raffinato umanista come il musicologo Massimo Mila, con queste parole: «forma attiva e pratica di conoscenza della crosta terrestre, l’alpinismo è cultura e quindi soggetto di storia» (3). Lo stesso Mila puntualizza, nella sua raccolta di Scritti di Montagna, un altro importante pensiero: «che l’alpinismo sia cultura, e non semplicemente uno sport, è provato dal fatto che ha prodotto e continua a produrre un’immensa letteratura, quale non si sogna nessuna delle attività più propriamente e strettamente sportive» (4). Sono gli stessi concetti che ritroviamo ancora nell’eredità ideale di Walter Bonatti e nelle testimonianze di Reinhold Messner.
Tuttavia, nella visione associativa di Quintino Sella, il Club alpino doveva estendere la propria opzione associativa agli aspetti legati alla formazione dei giovani, facendo loro comprendere il valore pedagogico della fatica e del sacrificio. L’esperienza alpinistica li avrebbe dotati di quegli anticorpi morali che l’etica della montagna riesce ad elargire per la sua forte capacità di favorire l’incorporazione del limite. La nascente società industriale, intanto, incominciava a far emergere il senso di onnipotenza della tecnica orientato verso la hybris tecnocratica, frutto dell’aspirazione umana all’onniscienza. Nella società odierna, tale atteggiamento è diventato, però, un tratto culturale preoccupante. Esso connota in senso negativo la nostra società del no limits, le cui conseguenze sull’eco-sostenibilità di un mondo quasi interamente artificiale si fanno sentire in tutta la loro inquietante evidenza. La società contemporanea è travolta, anche in rapporto alla montagna, dai fuochi fatui di una “cultura dell’eccesso” segnata da tecnicismi esasperati che si traducono nella “sportivizzazione” spinta delle attività alpinistiche, vissute nell’ottica del consumo veloce. L’alpinismo culturale di Mila, in coerente continuità con la visione di Quintino Sella, può rappresentare il migliore correttivo nei confronti di talune degenerazioni alle quali assistiamo talora sgomenti. La cultura del no limits, enfatizzata dalla spettacolarizzazione mediatica, rifugge ostentatamente dallo sforzo di conciliare il conoscere con il fare. La lungimiranza del pensiero di Sella, che va oltre il riduzionismo scientistico da un lato ed a quello ludico-sportivo dall’altro, va riportata proprio alla sua poliedrica formazione culturale. Egli, pur essendo un eminente scienziato della terra appartenente alla comunità scientifica delle cosiddette “scienze dure” fisico-matematiche, aveva un occhio di riguardo nei confronti delle discipline umanistiche. Ne costituisce una riprova l’istituzione, nella sua veste di Presidente dell’Accademia dei Lincei (dal 1 Marzo 1874), della classe disciplinare di scienze morali, storiche e filologiche.
Oltre agli aspetti riconducibili all’interesse scientifico nei confronti della mineralogia, della petrografia, della geologia ed alle preoccupazioni di ordine etico-pedagogico verso i giovani, la fondazione del Club alpino riveste, per il Sella, anche un’importante rilevanza politica. Si è già accennato al contesto storico in cui nacque il Sodalizio torinese negli anni appena successivi all’unificazione nazionale. Proprio le Alpi, in tale contesto, vengono ad assumere un significato nuovo. Cambia progressivamente la rappresentazione culturale che della catena alpina viene data in funzione della definizione o, meglio, della “invenzione” di uno spazio alpino di nuova percezione. Se la salita al Monte Bianco del 1786 sarà salutata come una vera “invenzione delle Alpi”, che sancirà il salto dal paradigma della percezione montanara a quello della percezione cittadina (alpinistica e turistica), la salita al Monviso rivestirà invece un forte significato simbolico. Tale significato è situabile al di là sia dell’interesse scientifico-geologico, sia di quello alpinistico.
Il Monviso diventa, dopo il 1860-61, la “montagna della Patria”, della nuova patria rappresentata dal Regno d’Italia. La geografia politica viene a prevalere, pertanto, su quella fisica. Per la geografia fisica le Alpi sono, infatti, una catena montuosa che delimita i quattro grandi bacini idrografici europei del Rodano, del Reno, del Danubio e del Po. Per la geografia politica e la storia dell’insediamento umano, le Alpi sono state una cerniera fra versanti, idrograficamente opposti quanto socialmente osmotici. Con l’affermarsi, in età moderna, degli Stati-Nazione ed in particolare dopo l’applicazione del Trattato dei Pirenei (1659) tra Francia e Spagna, le catene montuose in Europa si sono trasformate gradualmente in barriere di chiusura. Prima dell’età moderna le diverse comunità alpine convivevano entro entità statuali plurietniche e plurilinguistiche. Le varie “nazioni culturali” abitavano pacificamente entro Stati “multinazionali” che prescindevano, nella demarcazione dei loro confini, da qualsivoglia dottrina oro-idrografica (dottrina dello spartiacque o delle acque pendenti o ligne de partage des eaux). Anche gli Stati Sabaudi rispondevano a questa logica di cerniera intra-alpina. Mediante il Trattato di Rivoli già menzionato, il duca Emanuele Filiberto decretava l’uso della lingua francese nei documenti ufficiali dei Ducati di Savoia e di Aosta e della lingua italiana nel Principato di Piemonte e nella Contea di Nizza. Nelle Alpi occidentali lo Stato sabaudo inglobava, entro i propri confini politici, “nazioni” italofone e “nazioni” francofone a scavalco del Moncenisio. Uguale modello contrassegnava e contrassegna ancora, nelle Alpi centrali, la Confederazione elvetica a scavalco del Passo del San Gottardo. Fino alla conclusione della prima guerra mondiale (Trattato di Saint-Germain-en Laye, 1919), il Tirolo storico inglobava “nazionalità” tedescofone, italofone e ladine a scavalco del Passo del Brennero. Il capovolgimento del modello tradizionale multinazionale di Stato alpino interviene, sulle Alpi, a seguito dell’applicazione del Trattato di Utrecht (1713). Per effetto di tale Trattato le testate delle valli Varaita (Casteldelfino), Chisone (Pragelato), Dora Riparia (Oulx) – idrograficamente “pendenti” sul versante padano – diventeranno “piemontesi” e quindi “italiane”. Il paradigma idrografico di matrice francese, funzionale al nuovo modello di Stato-Nazione, verrà perfezionato dal geografo del re di Francia Philippe Buache in contrapposizione al modello medievale svizzero ed austro-tedesco, la cui definizione scientifica verrà formulata, a fine Ottocento, dal geografo Karl Haushöfer con il nome di PassStaat (lo Stato di Passo a scavalco del confine naturale idrografico). Con l’affermarsi degli Stati nazionali, si va verso l’identificazione del confine naturale con il confine politico diventato, nel frattempo, una frontiera ermetica ed un terreno di guerre in montagna. Tale modello sarà ritenuto più funzionale nell’individuazione di confini certi sul piano amministrativo e più sicuri sul piano militare.
Il nuovo orizzonte politico-culturale registra, intorno alla metà del secolo XIX°, l’affermarsi del sentimento di nazionalità su scala europea. Un sentimento rivolto all’identificazione fra l’idea di Nazione (unità di lingua e cultura) con l’idea di Stato (ordinamento giuridico e territorio). Le rivendicazioni delle cosiddette “nazioni senza stato”, fra cui l’Italia divisa in tanti Stati pre-unitari, alimenteranno sentimenti di questo tipo. La pagina storica del Risorgimento italiano vedrà quindi lo Stato sabaudo impegnato nell’intercettare tali nascenti sentimenti ed a fare del Piemonte la guida politica verso l’unità fra Stato e Nazione. Ma, come ho precedentemente segnalato, lo Stato sabaudo era, fino al 1860, uno “Stato di Passo” che teneva insieme territori transalpini (Savoia e Nizza) con territori cisalpini (Piemonte, Val d’Aosta e Liguria). Nel farsi paladino della nuova Italia, il Regno di Sardegna dovrà “sposare” le emergenti tesi geopolitiche di stampo idrografico e prevedere un piano di rinuncia ai territori transalpini da cui il casato traeva le proprie origini storiche e geografiche. In questo clima maturano le condizioni che porteranno ai negoziati di Cavour con Napoleone III, preparatori della seconda guerra di indipendenza (1859) attraverso una rappresentazione della catena alpina assolutamente rivoluzionaria. Illustri precedenti letterari, legati ad una visione delle Alpi come steccato che delimita la nazione italica, li troviamo già in Virgilio, Dante e Petrarca. In particolare, Virgilio descrive nell’Eneide la cuspide del Monviso (Vesulus pinifer) ritenuta, per forma e visibilità, la montagna più alta delle Alpi. Egli anticipa di molti secoli quell’icona simbolica delle Alpi Cozie che sarà decisiva nella percezione geopolitica ed associativa di Quintino Sella. Anche Francesco Petrarca, in un celebre sonetto, definiva l’Italia: «Il bel paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda e l’Alpe». Nell’anno 1848, Annibale da Saluzzo dà alle stampe per lo Stato Maggiore Sabaudo una pubblicazione che istituzionalizza l’immagine delle Alpi come cintura delimitativa dell’Italia (5). Nell’anno 1860, annessa la Lombardia al Regno di Sardegna, le clausole stabilite a Plombières sanciranno in via definitiva il ruolo inedito delle Alpi in funzione di barriera geografica fra popoli, stati e nazioni. Il nuovo corso della storia veniva, pertanto, a modificare profondamente l’immagine della catena alpina. Oltre alla salita al Monviso da parte di Mathews (30 Agosto1861), l’anno successivo un altro inglese, Francis Fox Tuckett, portava a termine l’impresa di salita al “Re di pietra”. La voglia di trasformare il Monviso in una bandiera del neonato Stato italiano diventa la molla per organizzare nell’estate del 1863, la spedizione italiana riparatrice. Il significato del Monviso andava, quindi, ben oltre l’aspetto puramente alpinistico per assumere quello, ancor più rilevante, di “montagna degli Italiani”. Mentre, infatti, la cresta principale delle Alpi occidentali segnava, a partire dall’anno 1860, la linea di confine con la Francia, il Monviso veniva a trovarsi per poche centinaia di metri in territorio completamente italiano. Anche il Gran Paradiso si trovava nella stessa situazione (unico quattromila interamente in Italia), ma in una posizione più defilata e meno visibile. La montagna degli Italiani diventava così la metafora dell’orgoglio nazionale ed il luogo di concepimento del futuro Club alpino. Il 12 Agosto 1863 Quintino Sella, il conte Paolo di Saint Robert, suo fratello Giacinto ed il barone calabrese Giovanni Barracco, deputato del collegio di Crotone al parlamento subalpino, porranno le basi ideali per la nascita del Sodalizio. L’interesse nazionale e l’amor patrio sopravanzeranno, per molti aspetti, l’interesse alpinistico in senso stretto.
Annibale Salsa
tratto dal libro “Le Alpi: dalla riscoperta alla conquista“,2014, il Mulino
video conferenza di A.Salsa: Sella e le origini del CAI
NOTE
- (1) Q. SELLA, Discorso d’inaugurazione al settimo congresso degli alpinisti italiani, Torino 1874, in: «Atti della R. Accademia dei Lincei», vol. II, 1884-1885, (1974).
- (2 P. CRIVELLARO, (a cura di), Quintino Sella. Una salita al Monviso. Lettera a Bartolomeo Gastaldi (1863), Verbania, Tararà, 1998, pagg. 44-45.
- (3) AA.VV., I cento anni del Club Alpino Italiano, Milano, CAI, 1964, pag. 11.
- (4) M. MILA, Scritti di Montagna, Torino, Einaudi, 1992, pag. 85.
- (5) A. DA SALUZZO, Le Alpi che cingono l’Italia considerate militarmente così nell’antica come nella presente loro condizione, Torino, Tipografia Enrico Mussano, 1845, vol. I, p. 784, in: P. CRIVELLARO (a cura di), p. 70.