L’alpinismo stampella della scienza

In questo articolo Roberto Mantovani, giornalista e storico, ci da una immagina del brodo primordiale in cui nel ‘700 l’alpinismo nacque come stampella della sete di conoscenza in alta quota. E’ attraverso questo ragionamento storico che si può capire l’intima unione tra il Club Alpino Italiano e lo studio  delle montagne, come sarà messo in luce negli articoli degli autori che seguiranno.

 

 

Convenzionalmente, gli storici hanno stabilito che la nascita ufficiale dell’alpinismo coincide con la prima ascensione del Monte Bianco, conclusasi – il dato è ricavato dalla testimonianza di chi seguiva l’ascensione da Chamonix, con il telescopio – alle ore 18.23 dell’8 agosto 1786.

Ovviamente, l’ascensione di quel giorno non costituì, in termini assoluti, la prima salita di una montagna. Fu però una scalata particolare perché, dal punto di vista epistemologico, rappresentò un cambiamento netto rispetto al passato.

Quell’avvenimento mandò infatti deliberatamente in frantumi, e in modo definitivo, il tabù delle altezze. Varcò i confini di un mondo proibito – quello dell’alta montagna, appunto – da cui, secondo le credenze dell’epoca, bisognava assolutamente tenersi lontani. In altre parole, sfidò apertamente l’anatema delle autorità religiose e politiche.

Uno dei suoi autori, il medico condotto di Chamonix, Michel Gabriel Paccard, 29 anni – come peraltro la sua guida, Jacques Balmat, più giovane di lui di cinque anni – era un suddito di Vittorio Amedeo III re di Sardegna. Non solo: Paccard era anche seguace della cultura dei lumi; esattamente come il mandante dell’ascensione, il geologo ginevrino Horace Bénédicte de Saussure. Ed entrambi, Paccard e Saussure, erano portatori di uno sguardo laico nei confronti della montagna.

300px Chamonix Michel PaccardStatua di Michel Paccard di fronte al Monte Bianco – Chamonix, Francia (credit wikipedia)

È anche per questo che la prima ascensione del Monte Bianco, la vetta più alta dell’intero arco alpino, è stata scelta come atto di nascita dell’alpinismo: nella vicenda dell’agosto 1786 affiorano evidenti i pilastri fondativi del pensiero occidentale moderno.

La novità e la forza del nuovo, in quella salita, erano costituite da un evidente atteggiamento di disincanto rispetto alle antiche leggende, e in una consapevolezza scientifica in grado di stracciare superstizioni e cancellare dalla scena demoni, draghi e streghe che, da secoli, la mentalità diffusa aveva insediato in pianta stabile sulle montagne.

Tutte le ascensioni precedenti, anche le più famose, come ad esempio quella del Rocciamelone, nel 1358, da parte di Rotario d’Asti (per inciso, il Rocciamelone fu anche l’unico 3000 delle Alpi salito prima del 1600), o come quella del Monte Aiguille, nel 1492, che va attribuita ad Antoine de Ville, ciambellano di re Carlo VIII di Francia, erano legate ad altre motivazioni.

 

L’“invenzione della montagna”

Bisognava che succedesse qualcosa di importante per far nascere l’alpinismo. Per prima cosa doveva ancora manifestarsi quell’“invenzione della montagna” che, nella seconda metà del ’700, grazie al fondamentale contributo di letteratura, poesia e arte, avrebbe portato in primo piano, nei salotti della cultura europea, le altissime terre del continente. Ma soprattutto, occorreva il fondamentale apporto della scienza, in particolare dei primi studi geologici, per liberare con un atto di forza l’arco alpino dalla gabbia delle sacre scritture, cioè da quelle credenze che oggi etichetteremmo come “creazionismo”. (Bisogna tenere conto, al proposito, che nel ’700 le teorie del sollevamento delle montagne e della successiva erosione dei rilievi da parte degli eventi atmosferici erano ancora ampiamente in discussione).

Descent from Mont Blanc in 1787Descent from Mont Blanc in 1787

Le montagne, secondo il racconto biblico, sarebbero apparse il terzo giorno della Creazione, e il loro aspetto non sarebbe mai mutato: non sarebbe riuscito a modificarlo nemmeno il diluvio.

Fergus Fleming, nel suo libro Killing Dragons. The cònquest of the Alps, uscito nel 2000 e comparso in edizione italiana nel 2012, con il titolo A caccia di draghi. La conquista delle Alpi, sostiene che: «La camicia di forza della Bibbia (e si riferisce alla spiegazione della nascita del globo terracqueo e alla formazione dei rilievi, n.d.a.) era a quel tempo talmente stretta che perfino scienziati economicamente indipendenti come Saussure si rifiutavano di approvare una teoria che escludesse il Diluvio». Scontrarsi con l’autorità religiosa, dunque, era come cozzare a grande velocità contro un muro di pietra.

Prendiamo ad esempio le morene glaciali, rese visibili dalla fusione dei ghiacciai. Fleming asserisce che Saussure si rifiutava di collegarle alla loro vera causa. Le interpretava invece, secondo l’ortodossia del tempo, come macerie lasciate dal Diluvio, e quindi le inquadrava nella sua concezione biblica del mondo. Sfidare l’interpretazione corrente delle Scritture poteva infatti causare seri guai.

Siamo dunque ai primordi dello sguardo scientifico rivolto alla natura. Le scienze della Terra sono ai primi vagiti, e devono farsi strada dimostrando persino cose che oggi sembrano postulati.

Basti pensare che il giovane Saussure, per smettere lui stesso di credere alla presenza delle streghe e dei draghi sulle montagne – e per garantire a tutti che quegli esseri non esistono – solo duecentocinquant’anni fa era ancora costretto a collezionare le prove del fatto che quegli esseri che noi oggi definiamo fantastici erano stati creati dall’immaginazione collettiva.

Stampella della scienza

È dalla scienza che partirà l’impulso che darà vita all’alpinismo, e solo più tardi quella spinta verrà appoggiata dai poeti, dagli scrittori, dai pittori e dai musicisti, che avranno senz’altro un ruolo importante nel richiamare l’attenzione dell’intellighenzia europea sulla montagna.

L’alpinismo nascerà dunque come stampella della scienza. La capacità e la tecnica necessarie per salire alle alte quote, a fine ’700, costituiranno uno strumento per soddisfare la curiosità scientifica. Uno strumento indispensabile per osservare il mondo dell’alto, per le osservazioni geologiche e per gli esperimenti ad alta quota.

La scalata dell’8 agosto 1786 divide la conoscenza delle montagne in un prima e in un dopo. Separa ciò che avvenuto prima della nascita dell’alpinismo da quello che è capitato dopo quella data, cioè il fluire degli eventi alpinistici.

E se il dopo, a parte qualche caso, è documentabile senza eccessive difficoltà, gli anni del prealpinismo non lo sono affatto. Si perdono nelle nebbie delle prime ricerche in montagna, delle esplorazioni pionieristiche e dei racconti mitologici. Anche perché, per la cultura del mondo urbano, ancora in età moderna (parliamo di modernità storica) le Alpi erano tanto distanti dal mondo civile quanto poteva esserlo la luna.

Lasciamo da parte le considerazioni che l’antichità classica e il medioevo nutrivano nei confronti delle montagne, totalmente improntate all’orofobia. Ma va ricordato che, ancora in pieno Rinascimento, per il mondo urbano le Alpi erano una regione pressoché sconosciuta; rappresentavano il regno dell’ignoto. E l’ignoto, per il mondo delle città e delle contrade d’Europa, era una specie di tela bianca su cui proiettare fantasie, incubi e sogni.

Lo storico francese Philippe Joutard, nel suo L’invention du Mont Blanc, uscito nel 1986 per le edizioni Gallimard, scrive che in realtà: «La montagna non è mai stata assente dall’orizzonte mentale europeo ma, come nella maggior parte delle culture, essa era uno spazio sacro, interdetto all’uomo comune, residenza della divinità buona o cattiva. La montagna compariva nell’iconografia, ma in secondo piano, in maniera stilizzata e come simbolo di una presenza sovrannaturale».

Attenzione, però: stiamo parlando della cultura egemone di quei tempi. Una cultura che non era evidente assimilabile, per lo meno sul tema montagna, a quella delle enclaves che avevano scelto di vivere sulle Alpi e che non erano mai riuscite a raccontarsi. Piccoli mondi che molto probabilmente manifestavano un atteggiamento diverso nei confronti della montagna. Un atteggiamento che oggi non siamo in grado di documentare, ma possiamo immaginare o ipotizzare.

Se i popoli alpini avessero nutrito un sentimento di avversione per gli ambienti d’alta quota, come sarebbero riusciti a sopportare un quotidiano osteggiato dalla presenza costante di demoni, draghi e streghe stanziati a breve distanza dagli insediamenti rurali o nascosti tra le cime che incombevano sui pendii delle valli?

Al contrario, viene naturale pensare che l’abitare la montagna implicasse un certo tasso di confidenza con l’ambiente e, contemporaneamente, l’acquisizione di un sapere specifico che permetteva di fronteggiare il gelo dell’inverno, le grandi nevicate, le valanghe, l’instabilità dei pendii, le alluvioni e i venti che si infilano con prepotenza nei solchi vallivi.

Per completare il ragionamento, può essere utile ricordare che spesso i manuali storici citano le leggende che, prima della nascita dell’alpinismo, circolavano nella Valle di Chamonix, come pure le ricorrenti benedizioni ai ghiacciai e le processioni religiose indette dai parroci per fermare l’avanzata delle «glacières», causate dalle oscure forze del male.

Si tratta di eventi citati spesso nei documenti delle parrocchie locali, e in effetti, nel Seicento e per buona parte del Settecento, l’immane colata della Mer de glace fu considerata una presenza ingombrante punitiva in cui si concentravano energie sovrannaturali terrificanti. Non solo: il mondo valligiano locale era anche incline a pensare che nella catena montuosa che s’innalza sopra le comunità disseminate lungo il corso dell’Arve si nascondessero delle cime maledette.

Forse però è il caso di interrogare sulla genesi di quelle credenze. Viene infatti da chiedersi se tali convinzioni non riflettessero l’atteggiamento della cultura urbana nei confronti delle montagne.

Ed è importante riflettere sulla questione perché, negli ultimi secoli del Medioevo, alcune regioni d’alta quota delle Alpi occidentali avevano invece conosciuto un esperimento straordinario, di cui spesso ci si dimentica.

La civilizzazione delle alte quote

I manuali di storia sono prodighi di capitoli sulle vicende dell’Europa mediterranea o sulle su quelle dell’Europa continentale, ma raramente raccontano che, nel periodo appena citato, nelle Alpi occidentali la civiltà fu portata a quote altitudinali incredibili.

Il riferimento riguarda le migrazioni dei coloni Walser che, spinti da contratti ereditari decisamente all’avanguardia, concessi loro da feudatari e monasteri che possedevano vastissimi fondi montani, avevano letteralmente dissodato l’alta montagna e avevano fatto casa ad altitudini a quel tempo impensabili. Saltando le quote intermedie e costruendo villaggi stabili, talvolta addirittura oltre i 2000 metri, tutto intorno al Monte Rosa.

Qualcuno dice che quello fu il periodo dell’optimum climatico medievale, e tende a ridimensionare l’eccezionalità di quelle migrazioni epocali. Si tratta di una convinzione abbastanza diffusa. Oggi tuttavia i climatologi sostengono che, con grande probabilità, sulle Alpi a quei tempi non faceva affatto più caldo di oggi, e che i ghiacciai non presentavano dimensioni più ridotte delle attuali. La comunità scientifica è infatti propensa a ritenere che, negli ultimi 5000 anni, il clima non sia mai stato caldo come oggi.

Mummia uomo del Similaun sulle Alpi italiane 1991Mummia uomo del Similaun sulle Alpi italiane 1991 – Di Vienna Report Agency/Sygma/Corbis – http://ilfattostorico.com/2011/06/26/lultima-cena-di-oetzi/, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4017159

Una delle prove più evidenti sarebbe costituita dal ritrovamento di Oetzi. Se la mummia del Similaun, rinvenuta sulle Alpi Venoste nel 1991 a quota 3200, fu ritrovata in perfetto stato di conservazione, è perché in passato – sostengono gli studiosi – la fusione glaciale non era mai stata tanto consistente come oggi. In altre parole: se le Alpi si fossero spogliate dei ghiacciai, il venir meno della coltre gelata che per alcuni millenni ha ricoperto Oetzi avrebbe impedito la conservazione del reperto.

(Sull’argomento può essere utile consultare il numero speciale di “Nimbus”, la rivista della Società meteorologica italiana, pubblicato nel dicembre 2012 e interamente dedicato al progetto Archlim, cioè alla ricostruzione del clima medievale da fonti documentarie in area alpino-padana. Il lavoro riguarda il versante meridionale delle Alpi e raccoglie i risultati di una ricerca interdisciplinare che ha impegnato a lungo storici e scienziati: climatologi, paleografi, archivisti, storici e ingegneri ambientali, sotto la supervisione scientifica di studiosi di fama).

La storia dei Walser, a cui si è appena fatto cenno, è stata un’esperienza che si è consumata nel silenzio dell’alta montagna. Per secoli l’Europa ha continuato a non sapere, a ignorare quella vicenda. A guardare le Alpi come se l’immane sequenza di colli e di cime rappresentasse il nulla, come se racchiudesse uno spazio vuoto (anche se popoli di ogni sorta in passato l’aveva attraversata o vi si erano insediati).

Per i cartografi del tempo, addirittura, le cime alpine non avevano nome. La prima carta d’Italia a stampa, che risale al 1482 e che uscì con l’atlante Berlingheri, oggi conservato alla Biblioteca nazionale di Torino, riporta un solo toponimo, all’estremità occidentale dell’arco alpino: «Mote Vesulo». Sotto è disegnato un lago: l’origine del Po. Qua e là si legge poi il nome di alcune valli, ma non le cime delle montagne. E dire che mancavano solo dieci anni alla cosiddetta “scoperta” dell’America. Per vedere comparire il toponimo Monte Rosa su una carta occorrerà attendere il 1620.

Eppure, nel Rinascimento, anche nei confronti di quel mondo alpino che le comunità urbane percepivano come un ambiente lontano se non del tutto irraggiungibile, accadde qualcosa di assai interessante.

I primi studiosi delle Alpi

Nella prima metà del Cinquecento, ad esempio, l’umanista Conrad Gesner, medico, naturalista e filosofo di Zurigo (tra i suoi sostenitore va annoverato il riformatore svizzero Uldrich Zwingli), cominciò a esplorare le Alpi, che considerava parte costitutiva del Teatro del mondo, e si ripromise di scalare ogni anno almeno una cima. Il suo approccio alla ricerca seguiva quattro capisaldi: l’osservazione, la dissezione, i viaggi e una descrizione accurata. Ma soprattutto denotava un atteggiamento nuovo rispetto agli studiosi del Rinascimento, che tendevano a utilizzare come fonti del sapere gli scrittori dell’antichità classica.

Gesner scoprì cose interessanti, ma fuori dalla Svizzera fu ampiamente ignorato (occorre tenere presente che era un seguace della Riforma).

Contemporaneo di Gesner, lo svizzero Josias Simler (anche questo un uomo della Riforma) licenziò nel 1574 il suo famoso De Alpibus commentarius, il primo trattato moderno sulla catena alpina. Simler non conosceva di persona le Alpi e costruì il libro sulla base di notizie di seconda mano; tuttavia ebbe il merito di raccogliere tutte le possibili conoscenze sulle montagne che separano l’Italia dai paesi del Nord Europa. In una sorta di “enciclopedia alpina” che, più di tre secoli dopo, dopo che verrà ripresa nella monumentale opera di William Augustus Brevoort Coolodge (Joasias Simler et les origines de l’alpinisme jus’quen 1600), apparsa a Grenoble nell’ottobre del 1904.

Centocinquantotto anni dopo l’apparizione del De Alpibus, un corregionale di Gesner, Joachim Scheuchzer, professore di fisica all’Università di Zurigo, effettuò nove viaggi sulle Alpi e pubblicò (nel 1723) il celebre Itinera per Helvetiae Alpina Regiones. Lo studioso descrisse fossili e ghiacciai, raccontò di botanica, di zoologia e di popolazioni montane. Ma non era un uomo da cime: a parte qualche eccezione, frequentò sempre e solo la montagna delle medie quote. Cercò anche di rispondere a un quesito che ossessionava l’Europa del tempo: esistono o no, i draghi in montagna? E la risposta fu: sì, esistono. Non tutti quelli proposti dalle leggende agli uomini del ’700, ma a Scheuchzer alcune testimonianze di incontri con i draghi parvero attendibili. Tant’è che lo studioso svizzero compilò un elenco di animali classificabili come draghi: mostri dalle fattezze diverse, con corpi di serpente sormontati da teste di gatto, serpenti con ali da pipistrello e zampe squamate, bestie con la cresta, ecc.

Eppure, quando solo diciotto anni più tardi, spinti dalla curiosità di ammirare cime e ghiacciai, gli aristocratici viaggiatori britannici Richard Pococke e William Windham entrarono con una carovana nella valle di Chamonix (pretendendo tra l’altro di essere gli scopritori del paese), non si imbatterono in nessuna presenza vivente al di fuori dall’ordinario.

Che dire, dunque? Che evidentemente tra il 1723 e il 1741 nel mondo della cultura europea erano successe alcune cose importanti. E soprattutto che l’alta montagna cominciò finalmente a fare capolino nell’orizzonte intellettuale del tempo.

Nel 1732, lo svizzero Albrecht von Aller, un famoso naturalista e filosofo svizzero (era nativo di Berna) di calco illuminista, aveva pubblicato il poema Die Alpen che ovunque, nei cenacoli letterari dell’antico continente, aveva diffuso la moda alpestre e una visione della natura ben differente da quella della tradizione (Particolare importante: Die Alpen avrà ben 30 ristampe). E poi, a ruota, erano apparsi i primi scritti di Rousseau, anche se La nouvelle Heloise è solo del 1761.

Lentamente, la montagna cominciò dunque a diventare di moda, fino a costituire uno dei temi centrali nel dibattito culturale dell’epoca. Anzi, fu proprio l’apparizione della montagna sulla scena del mondo urbano a costituire la vera, grande “invenzione” del secolo. Un’invenzione che permise alle élite intellettuali di fine ’700 di posare lo sguardo su un ambiente e su un paesaggio che fino a quel momento aveva continuato ad essere letteralmente invisibile.

Ma la montagna non apparve affatto in virtù di un gioco di prestigio. Il suo dischiudersi allo sguardo dei sapienti del Secolo dei Lumi fu il risultato di una vera e propria rivoluzione culturale capace di garantire uno statuto anche ai luoghi che la civiltà occidentale aveva per secoli ignorato o rifiutato di accogliere all’interno del proprio perimetro di senso e di significato.

Dunque, intorno alla metà del Settecento vengono poste delle premesse importanti per favorire l’avvicinamento di viaggiatori e letterati alla montagna. Ma attenzione: stiamo parlando di viaggiatori, non di alpinisti. In quegli anni non ci si spingeva oltre la quota delle nevi perenni. Non si scalava. Il mondo delle altezze cominciava a far capolino ma incuteva ancora timore. Anzi, l’idea di salire sulle cime più elevate doveva ancora essere messa a punto.

L’impulso a esplorare quel mondo doveva nascere da premesse diverse. Occorreva una spinta più potente delle suggestioni letterarie o poetiche; bisognava che il richiamo del mistero diventasse irresistibile. Come abbiamo detto all’inizio, il passo decisivo dovrà farlo la scienza. E la mente scientifica che farà impennare la corsa all’ignoto racchiuso dalle altezze della Terra nella seconda metà del Settecento, sarà quella – lo abbiamo già visto – di un aristocratico calvinista ginevrino. Horace Bénédicte de Saussure, che a 22 anni era già professore di filosofia all’Accademia di Ginevra e a 28 era stato chiamato a far parte della Royal Society britannica. Uno studioso che nutriva una passione sfrenata per la botanica e, soprattutto, per le scienze della Terra, al punto che oggi è considerato uno dei padri della geologia.

429pxSaussureHorace-Bénédict de Saussure (credit wikipedia)

Saussure era letteralmente ossessionato dal Monte Bianco, che intravedeva bene da Ginevra nelle giornate serene. E meno di vent’ani dopo il viaggio a Pococke e Windham approdò a Chamonix, dove diventerà di casa.

Da pioniere delle scienze della Terra, Saussure si trovò fare i conti con la superstizione. Ma fece tutti i passi necessari muovendosi con la necessaria prudenza scientifica.

In ogni caso, l’idea che qualcuno dovesse salire finalmente sul Monte Bianco era più forte di lui. Tant’è che nel 1860 offrì una ricca ricompensa alla prima persona che sarebbe riuscita a scalare la montagna.

Era convinto che lassù si nascondesse la chiave segreta per capire come si è formata la Terra.

Come finì la sfida lanciata da Saussure lo abbiamo raccontato all’inizio.

Scienza, prealpinismo, esplorazioni alpine

Dopo il 1786, come si è detto in precedenza possiamo finalmente parlare di alpinismo. Anche se quella data segna solo evidentemente un confine teorico. Non tutti, infatti, dopo la prima ascensione del Monte Bianco ebbero la consapevolezza di essere entrati in una nuova fase storica.

A questo punto, però, è forse il caso di tornare per un momento al prealpinismo. Tale ambito comprende tutte le ascensioni precedenti all’agosto del 1786, portate a termine per diletto, per accidente e per qualsivoglia altro motivo. Ma accoglie anche le campagne di ricerca dei primi geologi, dei mineralogisti d’antan, degli ingegneri minerari fautori dei primi studi stratigrafici nella seconda metà del Settecento, dei pionieri del’esplorazione alpina, dei botanici, dei cercatori di fossili, dei pionieri dello studio della stratigrafia.

E poi bisogna aggiungere il lavoro degli studiosi delle origini della Terra: una corrente che da Thomas Burnet – la cui opera Telluris Theoria Sacra, uscita in latino nel 1681, e tre ani dopo in inglese, cominciò a far scricchiolare la teoria biblica della creazione della Terra – si spinge a inizio Ottocento sino a Charles Lyell, per poi continuare con altri studiosi di fama. Insomma: uno straordinario filone di studi che, oltre a scoprire la dimensione del tempo profondo, dimostra che l’origine della Terra è inscritta nelle montagne.

Inoltre va tenuto in conto il fatto che molti tra pionieri della geologia figurano anche nel novero dei pionieri dell’alpinismo.

Tra i protagonisti, che ancora non possiamo definire italiani,

ma che sono comunque cittadini della penisola, la lista dei prealpinisti è sostanziosa. E va dall’abate veneziano Anton Lazzaro Moro, autore nel 1740 del volume De’ crostacei e degli altri marini corpi che si trovano su’ monti, ad Antonio Vallisneri (con il De corpi marini) e Luigi Ferdinando Marsili, studiosi dell’Appennino tosco-emiliano. E allinea molti altri personaggi di spicco, da Giovanni Targioni Tozzetti a Giovanni Arduino, da Lazzaro Spallanzani a Scipione Breislack, da Giovanni Battista Brocchi a Giuseppe Marzari Pencati. In pratica, la gran parte degli antesignani della geologia italiana. Oltre a questi nomi – anzi, prima di tutti gli studiosi appena citati, il prealpinismo nella penisola può vantare il nome di Francesco De Marchi, nato nel 1504 a Bologna e morto all’Aquila nel 1576. Un ingegnere militare e un avventuriero (nel senso più positivo del termine), animato da una curiosità scientifica tipicamente rinascimentale. Dopo aver girovagato a lungo tra i monti d’Abruzzo, il 19 agosto 1573, assieme ad alcuni compagni e a un cacciatore di camosci, all’età di 69 anni, De Marchi, salì per primo sulla cima del Corno Grande del Gran Sasso, lungo quella che oggi è considerata la via normale alla vetta. E raccontò: «Quando fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perché tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo». Ma quella straordinaria ascensione ebbe un seguito importante. Fu poi ripetuta, due secoli più tardi, il 30 luglio 1794, dal naturalista teramano Orazio Delfico, classe 1769, allievo di Spallanzani e di Volta all’Università di Pavia.